Mi è successo a volte che certe persone, quando stanno per accedere a un pensiero più positivo su loro stesse e sulle proprie capacità, oppure quando iniziano a vedere più positivamente una situazione che prima consideravano solo in termini di problema, si fermano e mi chiedono: “ma non è che così me la racconto?”.

Così ho riflettuto su come rispondere a questa domanda.

La prima cosa che penso è che comunque ce la raccontiamo, nel senso che non abbiamo mai a che fare con la realtà o con i fatti, ma sempre con il nostro modo di vedere la realtà, con le nostre interpretazioni sugli eventi che ci accadono, con il significato che gli attribuiamo. Quindi, dato che comunque ce la raccontiamo, non conviene raccontarcela meglio?
Non ci conviene raccontarcela in un modo che ci aiuti a crescere, a imparare dall’esperienza, a restare in contatto con le nostre risorse, piuttosto che in un modo che trasformi le normali difficoltà della vita in problemi insormontabili?

Se percepisco come più autentico e aderente alla realtà un tipo di pensiero negativo su me stesso, significa solo che sono più identificato con alcune parti di me che ad esempio si sentono incapaci, piccole, inadeguate, non all’altezza di. Ma queste parti o aspetti di me non sono la mia vera natura. Abbastanza semplicemente posso prendere consapevolezza della loro origine e della loro storia, e rendermi conto che si tratta di sovrastrutture, nate a partire da certe esperienze, dall’ambiente che ho incontrato nei primi anni di vita, da fattori collettivi e da tanto altro. Non sono un qualcosa di originario, di autentico, come invece sembra che certe persone pensino.

Ma, si sa, le identificazioni sono tenaci e spesso non mollano così facilmente.

Poi c’è un altro aspetto: sembra che per qualcuno accedere a una visione più positiva della vita significhi una mancanza di spontaneità. Certo, se sono identificato con un tipo di pensiero critico, pessimistico o svalutante, non mi verrà naturale cambiarlo e vedere le cose in un altro modo. Ma non potrei allora decidere di iniziare a raccontarmela in un modo diverso, finché questo nuovo modo di pensare e di vedere le cose non diventi spontaneo, non diventi un’abitudine?

Ma come?

Prima di imparare a guidare l’auto non lo sapevamo fare, non ci veniva spontaneo, abbiamo dovuto esercitarci. Poi, quando abbiamo imparato, le stesse cose che prima richiedevano molta attenzione sono diventate naturali, e ora possiamo farle senza pensarci più. Perché in ambito psicologico dovrebbe essere diverso?

Se non ci viene naturale avere un tipo di pensiero che evidenzia le risorse piuttosto che le difficoltà, è perché non siamo abituati a farlo. Ma se desideriamo questo cambiamento possiamo semplicemente impegnarci in questa direzione: all’inizio sarà innaturale proprio come lo era guidare l’auto finché non abbiamo imparato.
Dovremo fare molta pratica, portare attenzione cosciente ad ogni passaggio, finchè non ci verrà automatico vedere le cose in un certo modo, e dare un significato diverso agli eventi.

Magari riusciremo a considerare le difficoltà, a partire dalle piccole scocciature fino alle prove più dolorose, come opportunità di crescita, oppure a vedere l’intenzione positiva in ogni comportamento, nostro o altrui, oppure a sentire la nostra vita collegata a qualcosa di più grande.
Allora avremo imparato a raccontarcela meglio.

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